top of page
Immagine del redattoreMari

OSTETRICA, TRANS E MAPUCHE:




COME SOPRAVVIVERE ALLA DISCRIMINAZIONE E PORTARE LA VITA NEL MEZZO DELLA PANDEMIA


Uno scroscio di applausi la sorprese completamente. Si sentivano fuori da casa sua, però sembravano molto vicini. Claudia Ancapán Quilape non se lo aspettava, però la notte del 7 aprile erano per lei: una donna trans di 44 anni, matrona, mapuche e sopravvissuta, che da vari anni lavora in una clinica a Santiago e dove oggi nel mezzo della pandemia del Covid-19, continua ad assistere parti, cesarei, facendo controlli ginecologici, controllando gravidanze e patologie gestazionali, e tutte le altre attività proprie di ostetricia e puericultura, la sua specializzazione.

Quella notte, alcuni dei suoi vicini hanno replicato le scene di gratitudine verso i professionisti della salute che combattono in prima linea, una pratica iniziata in Italia e che si è estesa a molti paesi, durante l’espansione del virus nel mondo. Claudia è dovuta uscire per avere conferma di ciò che ascoltava. Dice che non ci poteva credere. "Brava, Claudia, brava! - le hanno gridato da un balcone - Ti aspettavamo, vicina, ti meriti tutti gli applausi. Molte grazie … " Claudia ha fatto una pausa, si è guardata attorno, poi è rimasta un po' a guardare verso l’alto, sorridendo. "Grazie a tutti." Questo non se lo dimenticherà mai, racconta. Nessuno mai la aveva applaudita così, in pubblico, da quando decise di fare la sua transizione nel 2005. Nemmeno quando ha presentato la sua tesi di laurea conseguita con lode, dopo una lunga ricerca sulle persone trans, commercio sessuale, contagio di infezioni a trasmissione sessuale e accoglienza nei servizi sanitari, all’Università Austral de Chile, dove aveva iniziato a studiare con la sua identità biologica. E ora, quelli da cui meno se lo aspettava erano i suoi vicini. Da poco aveva affrontato alcuni momenti difficili e tentativi di discriminazione nella sua comunità. Claudia dice che ci è ormai abituata, dopo tanti colpi ricevuti nella vita. Però questa volta non è stato per la sua identità o le sue radici, ma per la sua professione. Aveva coinciso con le denunce fatte al Collegio Medico del Cile nei primi giorni di aprile, sulle misure discriminatorie che stavano accadendo in alcuni edifici contro il personale di salute, restringendo loro l’uso di ascensori e spazi comuni, oltre ad esigere che si facciano carico delle proprie immondizie, tra le altre cose [n.d.t. per la paura che possano portare il contagio negli edifici]. “I primi giorni mi è toccato educare la mia comunità. C’era molta paura, e ho avuto una discussione con un vicino in particolare. Mi attaccò per il mio ruolo, però a causa del panico. E anche se ho compreso la sua reazione, mi sono vista obbligata a stopparla." L'ho convinto ad ascoltarmi e gli ho raccontato tutte le misure di sicurezza che prendo ogni giorno quando esco di casa, al lavoro, al mio ritorno. Ho dovuto spiegarlo a tutti, e fargli capire che se il personale sanitario non facesse il proprio lavoro, chi lo farebbe”, racconta Claudia al telefono, un lunedì mentre riposa nella sua casa, dopo essere tornata da un turno di 24 ore ininterrotte alla clinica.



Famiglia evangelica e origini indigene

Non le è toccata una vita facile, come alla maggior parte delle persone trans. È nata a Santiago, però la sua infanzia l’ha trascorsa in villaggi nel sud del Cile. È cresciuta durante la dittatura diAugusto Pinochet, in un contesto evangelico e in una famiglia di origine indigena. È la penultima di sei sorelle, ha frequentato una scuola rurale, una scuola pubblica e più tardi, nonostante la religione che si praticava a casa sua, in una scuola cattolica a Puerto Montt, una delle città simbolo della colonizzazione tedesca in Cile.“Questa fu una decisione di aspirazione, di status, perché in Cile purtroppo è molto comune che la scuola sia la chiave del tuo futuro professionale. In questa scuola cattolica c’era molto “blanqueamiento” [letteralmente sbiancamento, atteggiamento nei paesi latini, per cui chi ha origini indigene cerca di apparire come bianco, ad esempio tingendosi i capelli, nel vestire, parlare ecc] e io ero una pecora nera. Però mi dedicai a studiare e ad ottenere i voti migliori perché nessuno potesse criticarmi o segnalarmi per altri motivi”, racconta Claudia.A cinque anni ebbe il primo incontro con la propria identità di genere. Non lo ricorda, però lo sa per via di ciò che le raccontò sua madre anni dopo. “Io volevo essere costantemente circondata da bambine, giocando con le bambole, sempre in contatto con la forza della mia mamma e delle mie sorelle, perché mi sentivo più a mio agio con questo lato del genere. Inoltre volevo avere i capelli lunghi, come Dorothy Gale, del Mago de Oz, però mi facevano tagli militari perché in dittatura tutti i bambini dovevano avere i capelli così”, dice. Ebbe crisi di ansia, di panico, e alcuni episodi di anoressia da molto giovane. E anche se i suoi genitori la portarono da molti medici, nessuno seppe leggere quello che le accadeva. “Soffrivo molto perché volevo essere una bambina e non potevo. In quel periodo l’ignoranza su questi temi era totale”, ricorda.Decise di studiare ostetricia perché sospettava ciò che le succedeva, ma non aveva altri riferimenti, in un paio di libri che trovò in una biblioteca pubblica lesse che in altri paesi esisteva qualcosa chiamato chirurgia di riassegnazione del sesso. Quella scoperta fu uno dei suoi primi fari per proseguire il cammino e non arrendersi.“La conoscenza fu la mia salvezza. Decisi che se non potevo avere accesso a specialisti, perché a quell’epoca era impensabile, mi sarei io stessa avvicinata alla scienza, e per questo dovevo specializzarmi in questa area della salute, per conoscere la mia anatomia”, racconta. Approfittò per studiare molto sugli ormoni e mise il proprio corpo a disposizione di studi clinici.


Violenze e discriminazioni




All’università visse molti episodi di violenza fisica, istituzionale e discriminazione. Poco prima di laurearsi un gruppo neonazista l'attaccò nello stesso modo in cui, anni dopo, un altro gruppo simile avrebbe attaccato Daniel Zamudio, a Santiago. La colpirono fino a spaccarle la faccia. Inoltre la violentarono. “Fu molto difficile superare quell’episodio, però dico sempre che fu un lapsus nella mia vita che alla fin fine solo mi rinforzò. Non vinsero quelli che mi fecero quelle cose, perché non mi uccisero, bensì mi stimolarono a che compissi qualcosa che sembrava impossibile: che una transessuale si laureasse come donna in un paese retrogrado e patriarcale come il Cile”. Dopo anni in vari ospedali del sud, Claudia si trasferì a Santiago però nessuno voleva assumerla dopo che la licenziarono dall’ospedale San Borja. Sognava di fare carriera nella maternità di quel centro di salute pubblica. Poiché le chiusero le porte di tutti gli ospedali e cliniche della città, passò tre anni guadagnandosi da vivere con vari lavori, soprattutto nel campo della ristorazione fast food. La morte di suo padre, nel 2007, fu uno degli stimoli finali a prendere la decisione di vivere “a tempo pieno” e abbandonare la doppia vita che faceva prima della transazione. E non colpì tanto la sua famiglia, quanto la classe medica e il suo ambiente di lavoro. “Per il circolo professionale nel quale mi muovevo fu un insulto. Mi dicevano che questo avrebbe annullato la mia credibilità al momento di lavorare, perché la transessualità era associata alla prostituzione. Questo mi succede tutt’ora. Una volta, mentre cercavo lavoro, una dottoressa mi disse che la mia era un’infermità mentale e che non avrei potuto mai più esercitare”, ricorda.


Ciò che più mi ispira della causa mapuche è la sua resistenza”




Claudia è una persona resiliente, in parte per tutti gli ostacoli che ha dovuto superare. “Ho un carattere forte, di una donna sopravvissuta alla violenza in tutte le sue forme”, dice. Però è anche convinta che le sue radici mapuche hanno molto a che fare con il suo modo di affrontare il cammino e giungere dove si trova oggi. “Molte volte mi hanno discriminata solo per il mio aspetto, perché è evidente che ho radici indigene. Per me, la discriminazione è sempre stata doppia”, aggiunge. Questo la fa sentire più orgogliosa delle sue origini, della sua famiglia e della sua comunità. Al corteo dell’8 marzo o a manifestazioni sulla diversità è solita andare con alcuni abiti tipici del suo popolo, come la bandiera Wenüfoye. Una volta è andata ad un corteo dell’Orgoglio con un cartello che diceva, in mapudungun [lingua dei mapuche]: “La tua libertà sarà reale quando riuscirai a liberarti del peso di cui non hai bisogno”. Era vestita con un quetpám [mantello nero tipico], una decorazione pettorale e un trarilonko [diadema] in testa all’altezza della fronte [entrambi monili in argento tipici mapuche]. Però anche così Claudia riconosce che il suo vincolo con la causa indigena non è così profondo come vorrebbe e si pente di non aver appreso la lingua da piccola, quando sentiva parlare sua madre. Da adulta ha fatto vari corsi e il più recente online. In parallelo, studia il coronavirus, mentre le curva in Cile sale e supera i 10 mila casi.“Quello che più mi ispira della causa mapuche è la sua resistenza, come lottarono contro i conquistatori, come curano le loro terre e tutto l’ecosistema”, racconta Claudia su questo popolo che per anni è stato discriminato in molti modi nel suo paese. Uno studio recente dell’Università di Talca sulla discriminazione razziale in Cile, ha rivelato che la maggioranza de* cilen* preferisce liberarsi di qualunque vincolo indigeno e crede che avere un cognome mapuche possa essere pregiudizievole nella ricerca di un lavoro o nel fare carriera. Claudia dice che questa realtà le spezza il cuore. Quest’anno aveva pianificato di viaggiare al sud e stabilirsi in una comunità indigena per apprendere di più su di loro e su ciò che lei stessa è, nella quotidianità e non dai libri, dallo studio o dalla storia familiare. Però il coronavirus ha cambiato i suoi piani e le sue priorità. Per ora, Claudia rimane a Santiago lavorando, occupandosi delle urgenze, assistendo i medici nei reparti chirurgici. Nelle sue reti sociali e nell’ambiente a lei vicino, condivide informazioni utili per aiutare a prevenire il contagio. Ogni volta che arriva a casa sua, la routine è la stessa: si leva i vestiti prima di entrare, li mette in una borsa per lavarli immediatamente, si fa la doccia, disinfetta ciò che ha toccato, pulisce il bagno, e così prosegue tutti i giorni, molto consapevole di ogni passaggio: “Sono vulnerabile e non nego che, a volte, ho paura, però faccio tutto quello che posso per proteggere me e la mia comunità. Questo è il ruolo che mi è toccato e sono grata alla vita per questo”.


Di Airam Fernández, Santiago de Chile, 28/04/2020


Ringraziamo L'agenzia Presentes per la pubblicazione di questo articolo


Agencia Presentes https://agenciapresentes.org è un'agenzia di notizie regionali con sede a Buenos Aires nata nel 2016 che si occupa di libere soggettività in Argentina, Uruguay, Cile, Paraguai, Peru, Messico, Honduras, El Salvador e Guatemala con l'obiettivo di combattere le discriminazioni e visibilizzare le violenze contro le persone travesti, trans, lesbiche, bisessuali, intersex ma anche per narrare le reti sociali, politiche e culturali di questi collettivi e le loro conquiste



Fotos: Josean Rivera/Archivo Presentes

47 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page