Contributo di attivist* di Resistenza Animale (https://resistenzanimale.noblogs.org/) e Bio-violenza (http://bioviolenza.blogspot.com/)
Le lotte per la liberazione animale stanno vivendo, come tanti movimenti, un momento di stagnazione. Al contempo, sembra che le riflessioni di tipo “teorico” sulla cosiddetta questione animale si stiano articolando in modo più ampio e complesso di quanto sia mai stato fatto. D’altra parte, non è così facile – per fortuna, forse – distinguere fra “teoria” e “azione”. Questo lo si vede bene da tutta una serie di nuovi temi, concetti, anche nuove terminologie che stanno emergendo in una zona grigia fra le due. Si tratta di novità che interessano, come si può immaginare, delle nicchie di attivismo o di produzione filosofica, ma sono secondo me molto significative soprattutto se si intende costruire alleanze fra lotte.
Bisogna anzitutto considerare che in sostanza l’antispecismo da più o meno quarant’anni si fonda su delle teorie di filosofia morale elaborate in ambito accademico (da maschi eterosessuali bianchi abili, non a caso) che hanno costruito strategie per includere nel cerchio della considerazione morale gli animali non umani. Già il termine “includere”, oggi che si parla più di decolonialità, dovrebbe essere un po’ sospetto. E potrebbe essere anche una delle cause di una certa diffidenza nei confronti degli “animalisti”. In secondo luogo, da questa postura discende l’idea che la pratica di cambiamento principale, accanto a un pacato e razionale argomentare in favore dei “più deboli”, sia il veganismo e la sua diffusione porta-a-porta. Qui il veganismo è inteso come uno stile di consumo, in sostanza, un’opzione da esercitare individualmente al supermercato, mettendo in ombra l’aspetto sistemico dello sfruttamento animale, e cioè che miliardi di individui di altre specie sono fatte nascere, fatte riprodurre forzatamente, recluse e uccise in modo del tutto legale, se non sovvenzionato con soldi pubblici e in una cornice simbolica in cui tutto ciò è normale (normalizzato).
Anche questa visione sembra davvero moralistica e arrogante, ma altri motivi non depongono a favore di un dialogo con altre istanze. Per esempio, l’animalismo mainstream considera la questione animale come del tutto separabile dalle altre: anzi, collegare il problema della violenza sui non umani ad altri fenomeni sarebbe fuorviante e rischierebbe di distogliere energie dalla “vera causa”. Inoltre, l’animalismo/antispecismo tende a concepirsi come una lotta “atipica”, in cui non sono gli oppressi che lottano per se stessi, in quanto gli oppressi sarebbero “senza voce”. Se gli oppressi sono senza voce, siamo noi, allora, che generosamente scegliamo di non mangiarli, non rinchiuderli, o addirittura mettere in campo iniziative per la loro liberazione.
Di fronte a questa tradizione (che riguarda l’occidente bianco, perché va detto che non esiste solo la “nostra” sensibilità rispetto agli animali, esistono altre tradizioni che utilizzano altri strumenti), si sono ormai moltiplicate le critiche. La diffusione del concetto di “intersezionalità” ha contribuito a smantellare, almeno superficialmente, questa logica di trasversalismo che porta a sostenere che “tutto fa brodo” pur di ottenere dei risultati favorevoli alle “vittime”. Anche l’appoggio di un partito di destra sovranista in una campagna per abolire un settore di allevamento in parlamento, per esempio. Dico “superficialmente” perché certo l’intersezionalità è anche una moda, e spesso si confonde con un generico appello all’”unione delle lotte” o a una loro magica convergenza. Ma può essere intesa, credo più correttamente, come un metodo, un metodo per leggere l’intreccio e il reciproco rafforzarsi delle linee di oppressione, un metodo, soprattutto, aperto. Se i correlati delle oppressioni sono i privilegi, è giusto che ci siano sempre più attivist* che sottolineano come non solo essere bianchi, avere un reddito, essere maschi, cis, etero, abili, adulti (adulti spesso ce lo si dimentica), ecc. ecc. sono privilegi, ma anche essere umani, appartenere alla specie homo sapiens, è un privilegio. Judith Butler diceva che questi “ecc. ecc.” che noi mettiamo sempre in fondo alla lista sono motivo di imbarazzo e che questo imbarazzo deve essere assunto come un fatto, un fatto politico. E’ evidente che il privilegio di specie suscita imbarazzo, ed è normale, ma va affrontato, se vogliamo prendere seriamente il metodo intersezionale.
Cosa che peraltro è stata fatta negli ultimi anni, esplorando i nessi, per esempio, fra eterosessualità obbligatoria, eteronormatività (ma diciamo pure: eterosessualità) e cultura della carne; o fra sfruttamento della riproduzione dei corpi femminili umani e dei corpi femminili non umani; o fra abilismo e specismo; o ancora portando in Italia la prospettiva del veganismo afroamericano.
Per noi, a livello terminologico, iniziare a parlare di privilegio di specie, usando proprio questa parola, “privilegio”, è molto importante.
Un altro aspetto che è nato in quella zona grigia di cui sopra è che qualche anno fa alcun* attivist* hanno iniziato a manifestare un certo disagio per questa narrazione insistente dei “senza voce” e a chiedersi se avesse ragion d’essere. Gli animali sono davvero senza voce, solo perché non parlano la nostra lingua? Davvero devono essere degli oggetti e non dei soggetti, anche quando sono oggetti delle migliori intenzioni? Cioè quando ci sono degli umani “buoni” che vogliono salvarli. Questo gruppo ha dato vita al progetto di “Resistenza Animale” che ha iniziato a documentare i casi di ribellione, fuga, dissidenza degli animali nei mattatoi, negli allevamenti, nei circhi, negli zoo, nei laboratori. Scoprendo che gli animali si ribellano tutti i giorni, come possono, anche in gruppo, e anche con modalità complesse, solo che non se ne parla, oppure se ne parla in modo folcloristico, cioè infantilizzante, paternalistico, minorizzante.
Quindi abbiamo iniziato a dire, molto maldestramente, che noi non siamo i loro salvatori e che non è la “nostra” lotta in senso stretto, ma che siamo al loro fianco, che siamo alla costante ricerca di forme di solidarietà. Questo non risolve tutti i problemi del “prendere parola”, del “chi parla per chi”, che del resto sono problemi noti e non del tutto risolti da tradizioni più “robuste”, come il femminismo decoloniale e l’antirazzismo. Ma indica una direzione diversa. Oggi si è sviluppato un dibattito, anche accademico, sul tema, ma soprattutto abbiamo cercato di costruire delle contronarrazioni, episodio per episodio, ribellione per ribellione, che provassero a superare l’idea della “vittima inerme”. E anche a connettere la presenza di corpi estranei – le mucche fuggite dal mattatoio che attraversano le strade – a un problema più generale relativo alla presenza, nella città, dei corpi fuori luogo, i corpi migranti, i corpi froci, le varie indecorosità, in breve. Questo è un tema che, nel momento in cui le logiche securitarie si avvalgono di un’emergenza sanitaria terrorizzante, diventa fondamentale, perché lo spazio diventa ipercontrollato dalla polizia e dall’esercito, mentre l’allentamento della presenza umana sembra dare respiro al non umano (solo per un breve periodo).
Infine, se l’animalismo mainstream è concentrato sul fenomeno degli allevamenti intensivi e porta le sue denunce perfino in prima serata tv, da anni alcuni gruppi hanno messo in guarda contro il concetto di “carne felice”. Si tratta di un dispositivo retorico che fa sempre più presa, e che ammicca alla possibilità di uno sfruttamento “dolce”, più sano perché magari legato all’allevamento biologico, attento al benessere animale e all’impronta ecologica. Il risultato retorico, spesso, è quello di depotenziare anche la critica all’allevamento intensivo, perché ci si sente rassicurat* dalla sola possibilità, dalla sola ipotesi teorica di un mondo di mucche al pascolo (che comunque poi finiscono al macello, ma questo aspetto nella retorica della carne felice non è mai troppo sottolineato). Anche l’antispecismo morale di cui parlavamo ha gli strumenti per condannare questa retorica, ma credo sia più produttivo capire che questa è una retorica, appunto, ed è tesa a convincerci che si può fare qualcosa a qualcuno senza il suo consenso ma rispettando il suo “benessere” e che l’effetto è politicamente pericoloso.
Con le dovute distinzioni, non si può non pensare al concetto di pinkwashing e di greenwashing. Non a caso chi ne parla, chi denuncia la “carne felice” è spesso trattat* dall’animalista “medio” con sufficienza, proprio come i collettivi queer sono visti da certi settori dell’attivismo LGBT istituzionalizzati. Sorgono immediatamente gli appelli al pragmatismo: se il tale provvedimento può aiutare qualche individuo a migliorare la sua condizione, perché no? Chi si oppone è “ideologico”, vuole essere “duro e puro”, e così via. E qualcosa di simile accade, noi lo abbiamo visto molto bene durante NoExpoPride, per i matrimoni gay, in cui si sviluppa una sorta di ricatto, per cui se critichi una serie di concessioni formali del neoliberismo (che individualmente possono essere in effetti molto sostanziali) sei un detrattore dei diritti dei soggetti vulnerabili. Se critichi i matrimoni gay, sei un disfattista; se critichi l’allargamento delle gabbie per le galline, sei un cinico.
In generale, credo che questi e altri dibattiti per certi versi “interni” dei movimenti di liberazione animale siano davvero in grado di dare un nuovo vocabolario, delle nuove posture per provare a intessere alleanze non fondate sulla semplice unione di soggetti di lotta marginalizzati, ma piuttosto su identità, anche identità di lotta, più fluide, su una vera politica del posizionamento, non paternalistica e magari un po’ visionaria.
Comments